Riccardo, chi sei?

Sono nato nel febbraio del 1977, un anno sul quale sarebbe necessario avere ore per approfondire tutti gli avvenimenti che lo segnarono: dalla protesta studentesca alla morte di Elvis Presley. Casualmente, solo in età adulta scoprii che lo stesso giorno i Tower of Power registrarono uno storico live televisivo a Chicago.

Definirmi autonomamente non è semplice: pur avendo molti specchi in cui osservarmi, non sempre riesco ad interpretare in essi l’immagine che riflettono.

Sono innanzitutto innamorato della musica. Un rapporto spontaneo, innato, che ha richiesto molto tempo per assumere forma e che ancora oggi plasma continuamente sè stesso, senza un unico ruolo che possa descriverlo.

I primi ricordi sono riferiti all’ascolto: il sabato mattina, presso il Discobolo di via Castiglione, in cui Tiziano condivideva con mio padre nuovi vinili e musicassette, sul divano posto nel retro rialzato del negozio. Registrava per me qualche compilation, da riprodurre con il mangianastri: “My home town” di Bruce Springsteen, “Graceland” di Paul Simon, Tom Jones, Los lobos; avevo sei o sette anni.
Ricordo quando d’estate a Castel del Rio, ascoltavo i Dire Straits o Sting nello stereo di mio zio: “Money for nothing” e “Nothing like in the sun”. Una curiosità vissuta individualmente, senza condivisione. Non ricordo alcun particolare affezionamento alle sigle dei cartoni animati e film, così come a musica dedicata all’infanzia.

Un tassello fondamentale fu sicuramente rappresentato dalle vacanze estive a Campo Très: nella bellissima sala comune del villaggio, la libreria e il giradischi erano la dimensione astratta di un contesto in cui l’Adamello, proprio davanti a noi, era la porta per viaggi molto più ampi.
Anzichè giocare con il Commodore 64, ascoltavo ripetutamente “Dance with somebody” di Whitney Houston e “Se io fossi un angelo” di Lucio Dalla.

Il primo concerto che ho impresso nel mio cuore fu in un teatro tenda allestito ai Giardini Margherita nel 1989, realizzato da Gianni Morandi nel tour di “Varietà”. Ho ancora in mente il suo sguardo rivolto alla platea, riflesso dalle luci, che si impresse in me mentre sedevo per terra a bordo palco.

E infine ricordo l’autoradio: sempre accesa. Pochissima radio e molte musicassette; seduto nel retro, mi accovacciavo tra i sedili anteriori, per poter ascoltare. Le preferite erano “Rimini” di Fabrizio De Andrè e “Samarcanda” di Roberto Vecchioni. Mia madre ha sempre raccontato che, durante la gravidanza visse un sogno in cui sarei divenuto un direttore d’orchestra. Una suggestione che ho sempre sentito camminare vicino a me, pur a distanza.
I miei genitori non hanno studiato musica, nè suonato uno strumento: solo mio padre iniziò a studiare tastiera alla scuola Merry Melodies di via Piella, poco prima di morire. La musica era parte del loro essere, ma si muoveva dietro le quinte, come un’ospite e con discrezione, all’interno di vite orientate ad altro, per obbligo ancor prima che fosse un’eventuale scelta.

Quando avevo la possibilità di avvicinarmi ad uno strumento, lo facevo, senza alcuna consapevolezza.

L’assegnazione al termine della prima lezione di musica delle scuole medie, richiese di condividere una canzone o un album la settimana successiva: proposi Prince e la prof.ssa Fiocchi mi disse che il nostro non sarebbe sicuramente stato un rapporto semplice. Non avevamo dialogo, non sopportavo lo studio obbligato del flauto dolce, ma amavo l’ascolto dei vinili di Beethoven, Chopin e Malher, così come ancora oggi la ringrazierei per averci accompagnato al Teatro Comunale per assistere a “La Bohème”, “Lo Schiaccianoci” e, soprattutto, il “Peer Gynt”.

Nella primavera della terza media, avevo scelto di frequentare le Aldini-Valeriani: mia madre non era d’accordo, i professori disapprovavano, avendo consigliato il Liceo Galvani.

Fu una delle prime scelte “In direzione ostinata e contraria”, per quanto consapevole: ero assorbito dallo stereotipo che, iscrivendomi al liceo, avrei dovuto frequentare necessariamente l’università… a 14 anni appena compiuti non desideravo vincolarmi rispetto ad un futuro che interpretavo lontano ed ignoto. L’Istituto Tecnico Industriale era ai miei occhi più concreto, più libero, più affine all’esperienza di vita della mia famiglia, nella quale nessuna delle generazioni precedenti aveva frequentato licei e conseguito lauree.

Ero infine stanco di dedicare il mio tempo libero al nuoto agonistico e così iniziai a suonare uno strumento: in parte fui obbligato. Scelsi la chitarra, forse ispirato dai tanti momenti condivisi agli scout, con Bigio e Akela che suonavano: “Eppure soffia” o “Generale” erano le canzoni più richieste.

Frequentai le prime lezioni con un insegnante di chitarra classica: in un appartamento vuoto, la mia ora di lezione consisteva in 30 minuti di avanzamento e 30 minuti di studio solitario nella stanza a fianco, mentre iniziava la lezione successiva. Gli errori erano puniti con una bacchettata sulle mani, attraverso un bamboo che avrei volentieri spezzato.

Due tra i miei catechisti suonavano in una band: Massimo era il cantante dei Q.C.A. (Quelli che aspettano), mentre Fabio cantava nei Midcourse. Nel gruppo parrocchiale del 1976, alcuni ragazzi avevano formato il gruppo dei “Mad Hatters” e per noi, appena più piccoli, erano un riferimento.

Fabio era il più anticonformista: capelli riccioli lunghi, magliette con le maniche tagliate e una rock band con cui riprendeva brani dei Black Sabbath, Led Zeppelin, ma soprattutto dei Queen. Il suo storico chitarrista, Manzo, non aveva nulla da invidiare a Randy Roads, ma fu l’altro, Stefano Conti, ad attrarre la mia attenzione. Aveva un’Ibanez elettrica nera con sfumature violacee, simile alla Joe Satriani ed ero rapito dal suo modo di suonare.
Al termine di un concerto nel teatro parrocchiale di S. Silverio, gli chiesi se mi avrebbe potuto insegnare a suonare, ed accettò. Considero questo il mio primo passo cosciente nella musica.